I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
Il corpo nelle fiabe
14 gennaio, 2024 - 17:26
Marola 6 Settembre 2001-
Quarto seminario al Seminario:
Il mio corpo si trasforma
relazione rivolta ai volontari e ai proff referenti
di Gancio Originale
Quarto seminario al Seminario:
Il mio corpo si trasforma
relazione rivolta ai volontari e ai proff referenti
di Gancio Originale
- Il corpo preadolescenziale
Fra gli elementi più tipici della preadolescenza quello costituito dalle trasformazioni che intervengono a livello della corporeità ha senz’altro un posto di tutto rilievo.
I massicci cambiamenti che in quel momento della nostra vita intervengono nel nostro corpo stentano all’inizio ad essere da noi compresi e sospingono ogni società a mettere in atto tutta una serie di manovre difensive gruppali (o ‘sociali’, come le definisce Devereux) al fine di esorcizzare le ansie e le angosce che avvengono nel corpo sociale di fronte all’accesso della nuova generazione alla produttività e alla riproduttività, intese sia in termini materiali che simbolici.
Cosicché a livello individuale il preadolescente e la preadolescente fanno fatica ad integrare le trasformazioni che stanno avvenendo nel loro corpo e nella loro psiche, cioè a convivere bene con il nuovo corpo, a viverlo come proprio, a riuscire a comprenderne fin da subito i meccanismi di funzionamento, a dirigere i propri affetti fuori dal recinto edipico, a passare cioè dall’endogamia all’esogamia, a non essere sopraffatto dal turbinio di passioni che la pubertà risveglia e a mantenere o accrescere la propensione allo studio, a trarre vantaggio dai nuovi gruppi di pari in cui si ha la ventura di capitare, etc.-
E a livello sociale tanto è sentita la minaccia che deriva dall’emergere della nuova generazione che ogni società sente il bisogno di istituire delle cerimonie, dei riti di passaggio all’età adulta che mirano, fra l’altro, ad esorcizzare ogni elemento di novità che derivi dall’impatto con la nuova generazione e ad in quadrarla nell’ordine di idee e di consuetudini precostituite dal mondo adulto, cioè in quell’insieme di usi e costumi che in quel dato momento sono da essa considerate come parte integrante dell’appartenenza, cioè dell’identità di quella società, e di quello strato sociale cui il preadolescente appartiene.
E il corpo, sia all’interno della singolarità dell’individuo, sia della globalità del mondo familiare e sociale di cui egli fa parte, occupa in questo momento un posto di riguardo – come dicevamo prima – perché luogo dell’evidenza del cambiamento. Tant’è vero che, se c’è una differenza fra le trasformazioni che in questa fase avvengono nel corpo maschile e femminile, questa – come ci ricorda Silvia Vegetti Finzi – è nel fatto che la periodicità del menarca, la sua incontrovertibile presenza sospinge più risolutamente la ragazza verso l’autoconsapevolezza dell’avvenuto ingresso in una nuova età, mentre la rapsodicità dell’erezione maschile, l’elemento di potenzialità che rende meno chiari i segni di una sua presenza spesso sospingono in preadolescenza i ragazzi ad impigrirsi in una sorta di postfanciullezza che li rende solitamente più opachi ed infantili rispetto alle coetanee (come sa qualsiasi insegnante di scuola media inferiore).
Se poi noi volgiamo la nostra attenzione al ragazzo a rischio o al disabile subito percepiamo che per costoro il corpo all’esordio dell’adolescenza si presenta come ancora più indecifrabile rispetto a quello che all’improvviso si presenta al loro coetaneo normodotato.
Nel caso del ragazzo a rischio, i problemi presenti a livello di autostima, di immagine di sé, di capacità di non cedere all’impulsività e di trasformare almeno una parte delle energie in qualcosa di produttivo (cioè i problemi presenti a livello superegoico e dell'Ideale dell’Io) non aiutano certo il ragazzo, anzi spesso ne accentuano le propensioni all’agito già presenti in loro in latenza (Bertani) -
Nel secondo caso la disabilità e le conseguenti carenze presenti a livello egoico (cioè a livello delle capacità logiche e razionali) rendono particolarmente penosa la convivenza col nuovo che, a causa di queste carenze strutturali, risulta di difficilissima comprensione.
Ciò pesa enormemente in quei casi più lievi in cui proprio in questo periodo si viene strutturando nel soggetto una vaga autoconsapevolezza: una debole identità precaria, come dice Montobbio.
Ecco perché abbiamo pensato di proseguire quel discorso sulla corporeità, e sul corpo adolescenziale, che abbiamo intrapreso da tempo e che ha visto nell’incontro con il Prof. Le Breton un alto momento di riflessione.
Perché il corpo delle fiabe
La riflessione ed il lavoro in atelier che faremo in questi due giorni sulla corporeità parte con questa mia relazione che - più che affrontare il tema della corporeità in preadolescenza - vuole proporvi un percorso mirante a ritrovare le tracce di un discorso sul corpo all’interno delle fiabe. Laddove da una parte vi è l’immenso materiale fiabesco, l’insieme perennemente mutante delle trame; dall’altra la specificità dello stile fiabesco, la particolarissima economia che lo pervade, cioè quel modo di entrare in medias res diretto, ma anche allusivo, altamente centrato com’è sulla polisemia, sulla pluralità di significati cui i singoli elementi della fiaba sempre alludono.
Polisemia che, nel nostro caso, significa pluralità dei significati che il corpo, e il corpo pubere in particolare, assumono all’interno delle fiabe.
La riflessione proseguirà poi domani mattina con il discorso che Flavia Rossi farà sul corpo della Tv, cioè sulle funzioni che il corpo assume all’interno dell’ottica televisiva, sui significati cui tali rappresentazioni alludono.
Affinché possiate seguirmi senza che io debba entrare più nel merito delle funzioni terapeutiche e preventive che la fiaba assume (specialmente allorchè il raccontatore si trova in situazione di fronte alla propria udienza) ho provveduto a fornirvi il mio testo dell’incontro sulle fiabe avvenuto tre o quattro anni fa proprio qui a Marola.
Confido sul fatto che almeno alcune delle fiabe di cui parlerò oggi siano da voi state ascoltate: per quelle relative alla tradizione popolare reggiana, e soprattutto pugliese mi perdonerete se farò solo un rapido cenno alle singole trame.
Prima di cominciare con i commenti vorrei però ricordare almeno alcuni punti:
- innanzitutto oggi non si tratta di ribadire le grandi capacità che la fiaba ha di lenire le sofferenze mentali di grandi e piccini, ma di considerare il discorso fiabesco come una cartina di tornasole che permette di comprendere e, direi, di sentire come il corpo che cambia susciti in tutti una serie di ansie e di angosce ineludibili, poiché legate alla crescita: ansie ed angosce che vanno affrontate con coraggio se si vuole proseguire lungo il cammino della vita;
- in secondo luogo ricordo che nelle fiabe materialità e spiritualità, corpo e psiche sono parenti. Ogni cambiamento che avviene in una sfera allude all’altra e, siccome i cambiamenti che avvengono nel corpo hanno la possibilità di essere più facilmente percepiti di quelli che in concomitanza stanno avvenendo nella psiche, nelle fiabe è più facile che all’ordine del giorno sia la fisicità dei corpi, più che la impalpabilità degli spiriti;
- ricordo poi che il discorso fiabesco sulla corporeità è riscontrabile sia nelle fiabe in cui ci sia un personaggio da impalmare (quelle edipiche), sia in quelle in cui si parla proprio della crescita psicologica (le fiabe a sfondo narcisistico);
- ed infine ricordo che fenomeni psichici quali la scissione (cioè la separazione netta fra ciò che è ritenuto buono e ciò che non lo è), così come l’invidia, la gelosia, l’odio, l’amore (compreso quello fisico), l’aggressività, etc. etc. nelle fiabe sono all’ordine del giorno: lo sono in maniera massiccia ed esplicita, di modo che parlare ad esempio del rapporto fra madre e figlia in preadolescenza nel discorso fiabesco significa, come avviene in Biancaneve, scindere il personaggio materno in madre buona (che nelle fiabe è sempre morta) e madre cattiva, fare esprimere apertamente a questa parte scissa ciò che la fanciulla pensa che la madre in questo momento desideri (rimanere la più bella del reame) e ciò che teme che, sempre la madre, invidi (il corpo neo pubere di Biancaneve capace di spodestarla da quel primato) etc. etc.- Provate a leggere un testo scientifico sulle sensazioni che il corpo pubere della figlia femmina induce in essa e sulle proiezioni che in questo momento essa fa sulla madre e fate un paragone con ciò che è detto esplicitamente in Biancaneve. Non ne parliamo poi quando il testo è un insieme moralistico di istruzioni per il buon comportamento delle ragazze.
Queste le ragioni che ci hanno spinto a leggere le trasformazioni corporee attraverso le fiabe. Per quanto riguarda il corpo della TV lascio la parola alla Flavia Rossi, ma penso che anche in quel caso la forza espressiva del messaggio televisivo sia più esplicita di tanti discorsi indiretti, o meno diretti sulla corporeità.
Trasformazioni del corpo femminile nelle fiabe
Partiamo da un classico: La bella addormentata nel bosco. Il bacio del principe (ma nella versione di Collodi, del 1875, basta che il principe entri nel luogo fatato in cui la principessa dorme e che la guardi ‘con certi occhi più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento’) svegliano la principessa a nuova vita.
Vediamo ora una fiaba raccolta a Locorotondo, in Puglia, da me intitolata La storia di Viola (Angelini, 1989). Nel finale di questa storia, durante la prima notte nuziale, Viola, la protagonista, prepara una bambola di zucchero che rimane ovviamente muta e passiva mentre il principe si unisce a lei. Il principe preso dall’ira per questa presunta passività di Viola la uccide, o meglio ferisce a morte la bambola e sta per uccidersi per il rimorso, quando Viola, che si era nascosta presso il talamo nuziale, lo distoglie da questo insano proposito dicendo: ‘Quella era Viola di zucchero, io sono la Viola vera!’.
Dalla tradizione reggiana - e precisamente da una bellissima raccolta di Cassinadri e Pantaleoni - ecco La fòla del lòv la fiaba del lupo che, riprende il tema di Cappuccetto Rosso, ma l’adatta alla cultura reggiana in cui il dato delle pulsioni cannibaliche, cioè possessive, è centrale. In questo modo si vede la protagonista[1] che prima è nell’orbita della possessività materna, e che poi viene mangiata dal lupo. Mentre nella versione più conosciuta poi alla fine arriva un cacciatore che fa rinascere la bambina, nella versione reggiana (come in quella di Perrault) la giovane non risorge poiché in queste due versioni, diversamente di quanto accade in Cappuccetto Rosso, non c’è la scissione fra parti possessive e cannibaliche maschili da una parte (l’unione temuta), e parti soccorrevoli e che aiutano la rinascita della bimba in quanto donna dall’altra (l’unione ricercata).
Queste tre storie penso ci aiutino a comprendere di che cosa in effetti stiamo parlando: il corpo adolescenziale è un corpo nuovo a. che si risveglia a nuova vita; b. che rinasce in quanto vero, c. che non è più bramato dalla madre, ma dal lupo, o – nella versione più conosciuta – dal lupo e dal cacciatore.
Ciò che viene nello stesso tempo temuto e ricercato non è più quell’insieme di forti legami endogamici di amore - odio che caratterizzano l’infanzia e la fanciullezza, ma all’improvviso c’è un nuovo sentire esogamico (la ricerca del personaggio cercato, direbbe Propp) che all’inizio un po’ fa paura, per cui Viola di fronte alla prospettiva dell’unione fisica all’inizio non sarà se stessa, ma Viola di zucchero (poiché Viola ancora non conosce questa parte di sé), ma poscia più che il timor ..-
Un nuovo sentire che permette alla giovane di comprendere - cosa che qualche anno addietro non avrebbe compreso - che il principe la sta guardando ‘con certi occhi più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento’. Tant’è vero ciò che la fiaba dice che, nell’attesa di un principe la risvegliasse a nuova vita, si era addormentata, dopo che era stata punta da un fuso fatato che una vecchia megera (la parte scissa della madre possessiva che sabota la crescita psicologica, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo) aveva reso tale. In questo modo l’arrivo del principe diventa una prova di realtà che fa sparire l’incantesimo, che fa sparire la paura dell’unione esogamica, diremmo noi.
Nella fiaba reggiana del lupo la soluzione del conflitto è diversa: è come se si dicesse alla bambina: bada che tu sei destinata a passare da una situazione di dipendenza dalla madre orale, a quella da un marito altrettanto orale che ti divorerà come un lupo. Ma nella stessa fiaba la bambina che ha voglia di mangiare lo gnocco fritto e che non ha il recipiente per farlo, va dal lupo che glielo dà (avete capito bene) in cambio di pane e vino (com’è ovvio); ed è poi la madre possessiva che diventa anche svalutante che suggerisce alla figlia di portare al lupaccio, invece di vino e pane, ‘na fiasca ed pésa’ che ‘la fa da vein’ e la ‘mêrda ed vaca’ che ‘la fa da pân’ (e quante volte abbiamo sentito non solo le madri, ma molti benpensanti far passare per sporche queste cose).
Trasformazioni del corpo maschile nelle fiabe
Veniamo ora al corpo maschile e, come abbiamo fatto prima, prendiamo tre fiabe. Nella fiaba ‘Il forte Gianni’, il protagonista, che è stato rapito da piccolo da una banda di briganti insieme alla mamma, dapprima si costruisce un bastone nodoso, poi con quello sfida tre volte il capo dei briganti per uscire dalla caverna in cui lui e la mamma sono prigionieri e dove la mamma deve accudire alle faccende domestiche (occorre aggiungere di più per comprendere cosa rappresentano i briganti?). Alla terza sfida, cioè dopo tre anni, quel bambino vince ed li uccide tutti, a partire dal capobanda (non era successa la stessa cosa ad un bambino dai piedi gonfi chiamato Edipo?).
Si ricongiunge poi con il padre vero (con le parti buone scisse paterne) dal quale si fa costruire un bastone ancora più potente col quale, insieme a due infidi amici spaccatutto riesce alla fine a conquistare una principessa che un pretendente deluso aveva rapito al padre.
Nella fiaba locorotondese del Serpente a sette teste un bambino coraggioso, allontanatosi dal padre buono che crede di averlo dovuto sacrificare per sfamare il resto della famiglia, va a servizio da un contadino che gli affida un gregge, ma lo manda in un campo arido (insomma che lo mette alla prova), lì un mostro a sette teste (ithiphallus, direbbero i latini) lo sfida, ma il bambino chiede tempo (attenzione: la questione temporale è fondamentale nell’universo delle trasformazioni corporee maschili, così come in quelle femminili).
Giunto il giorno della sfida, con l’aiuto del contadino che lo sostiene materialmente, cioè che lo nutre, il bambino, nel frattempo diventato giovane, uccide il mostro che, come in quell’altra fiaba di quello dai piedi gonfi, terrorizzava il reame. Il contadino a questo punto diventa, come gli amici spaccatutto di Gianni, infido (proppianamente: un falso eroe) e sta per sposare la principessa quando arriva il nostro vero eroe e, con piane parole, scopre l’inganno: morte al falso eroe e il reame al nostro giovane!
Infine nella fiaba reggiana di Pirìn Fasòl non c’è un personaggio da impalmare, ma lo sfondo narcisistico della fiaba ben si attaglia ugualmente al tema della crescita e della trasformazione. Pirìn è un bambino che sopravvive, come i suoi numerosi fratelli ad una volontà omicida paterna ‘Sai che siamo poveri e non abbiamo niente da dargli da mangiare? Io li comincio ad uccidere!’ E la madre: ‘Mettiamoli a lavorare piuttosto!’.
Cosicché Pirìn viene messo alla guardia di un albero di pero, ché la strega non ne mangi i frutti. Ma Pirìn è piccolo e credulone e la strega per tre volte lo cattura, lo mette nel sacco (amniotico?) poiché lo vuol mangiare (allusione alla possessività materna, che come è possibile vedere, nella vostra cultura si rivolge sia alle figlie che ai figli, anche se per diversi motivi, come vedremo meglio fra un po’). Ma alla fine, proprio quando la strega, insieme alla propria figlia Minghèta, stava per divoralo ecco che Pierino, fattosi astuto, prende il coltello e risolve crudelmente la situazione (del resto loro, madre e sorella, volevano mangiarselo, cioè volevano tenerselo per sé in un claustrum dal quale è difficile uscire, come abbiamo già imparato).
L’albero del pero in fondo è un produttore di ricchezza che Pirìn deve imparare a difendere: e - anche questo lo abbiamo imparato - laddove nella fiaba si parla di ricchezza materiale, si intende anche di ricchezza spirituale: cosicché Pirìn apprende dall’esperienza attraverso quest’opera di salvaguardia della ricchezza che deriva dal pero, che è lavoro produttivo (‘Cumincia mo a mandêrli da na quêlch pêrt, se no chè an s’tîra mia avanti’, dice la madre per convincere il padre a non ammazzarli). Ed apprende sottoponendosi a delle prove. Il coltello che alla fine lo aiuta a recidere il cordone ombelicale, si potrebbe forse dire, è il segnale che è diventato grande.
Ma anche l’eroe del Serpente a Sette Teste si sottopone a delle prove, anche lui cioè ha bisogno di tempo per crescere, per commisurare la propria genitalità (intesa come capacità riproduttiva e produttiva sia in termini letterali che simbolici) da una parte con quella del padre, dall’altra nella dimensione del rapporto fra pari (il falso eroe).
Sullo stesso doppio registro va intesa la lotta di Gianni con le imago paterne e il suo inspirasi ad esse da una parte, e con gli infidi amici spaccatutto, dall’altra. Sulle stesse esigenze di prendersi tempo per crescere i suoi iniziali insuccessi, così come le richieste del ragazzo al Serpente a sette teste, e i tentativi falliti di Pirìn di non cadere nel sacco della strega.
Trasformazioni e conflitti nel caso della ragazza
I corpi degli altri personaggi presenti nelle singole fiabe e soprattutto le azioni compiute da loro e dai protagonisti ci permettono di fare ulteriori riflessioni sui significati della corporeità in preadolescenza e di entrare più nel merito dei problemi e dei conflitti interiori cui le fiabe alludono.
Anche a questo proposito useremo alcune fiabe che mi sono sembrate significative, comprese alcune delle fiabe che abbiamo visto nei paragrafi precedenti.
Partiamo da un classico che conosciamo tutti, Biancaneve. In questa fiaba la matrigna allorchè fa allo specchio la fatidica domanda ‘specchio, specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?’ rappresenta le parti materne invidiose, le imago materne invidiose[2] della preadolescente. Imago materne che la ragazza proietta nella madre, la quale, secondo la figlia, nel paragonare il proprio corpo a quello della propria figlia neo pubere, non sopporta che l’avvenuto ingresso da parte di quest’ultima nel mondo della generatività adulta e la fresca bellezza suo corpo rappresentino in maniera così evidente e spudorata il proprio declino fisico.
In maniera più subdola in Cenerentola lo stesso tema del corpo della protagonista che si trasforma da corpo infantile a corpo adulto, grazie anche all’aiuto proveniente dalle parti scisse materne buone e soccorrevoli rappresentate dalla fatina, innesca, col solito meccanismo proiettivo, una spirale di odio materno nei confronti di una bambina che si appresta a diventare donna e che, perciò, potrebbe uscire dall’orbita del desiderio castrante materno, che è quello di vederla sempre con sè, sottomessa nei lavori domestici (con le ceneri del focolare).
E così, prima che il principe che aiuti Biancaneve a sputare fuori il morso avvelenato ed operi una rinascita, prima che in Cenerentola il principe compia lo stesso percorso emancipatorio, entrambe devono superare i conflitti che le oppongono alle imago materne invidiose e castranti. Che se poi ci troviamo alla presenza di una madre troppo invidiosa o castrante non più solo sulla scena fantasmatica (cioè nel mondo interno della neo pubere), ma anche nella vita reale allora sappiamo che forse la forza terapeutica della fiaba è destinata ad attenuarsi poiché la presenza di un conflitto interpersonale, a fianco a quello intrapsichico, imporrebbe una terapia della madre, più che della figlia.
In Cappuccetto Rosso il tema dell’avvento della pubertà e l’esigenza di uscire dall’endogamia e di andare per la propria strada, almeno nella sua versione canonica, non vede nella figura materna un impedimento, anzi è la madre che incita Cappuccetto ad andare dalla nonna. Semmai poi, in un secondo momento, Cappuccetto prende la strada del bosco, contravvenendo ad una raccomandazione materna[3] e dimostrando di avere ormai una propria visione del mondo[4].
Ma qui il tema è nell’incontro con l’uomo, nell’incontro corporeo con esso (ma che orecchie grandi che hai? Ma che occhi .., etc.) che nascono i confitti. Poiché questo incontro, l’approssimarsi di questo incontro attivizza da una parte angosce di tipo cannibalico legate alla non conoscenza di ciò che sta per accadere, dall’altra sentimenti di fiducia nei confronti della funzione che l’incontro con un partner può assumere sul piano di quella vera e propria rinascita che sta per trasformare la bambina in donna pubere.
Laddove aprire la pancia del lupo, dopo averlo ucciso e fare risorgere Cappuccetto Rosso assume quasi il significato che per un bambino può avere il gioco del rompere un giocattolo per vedere ciò che sta dentro.
Nella Bella Addormentata nel Bosco le parti scisse della madre che non vogliono che la bambina cresca, che diventi pubere, e che così esca fuori dall’universo materno sono icasticamente rappresentate dall’unica fata non invitata (perché ritenuta morta, cioè non presente) allorchè la principessa era nata, la quale predice che il destino della principessa sarà quello di pungersi e di sanguinare, vissuto come un qualcosa di terrificante che la farà morire.
Ciò che non sa questa vecchia fata invidiosa e che noi sappiamo e che, dopo la morte del corpo infantile verrà il bacio del principe, l’amore adulto capace di trasformare il corpo pregenitale, fissato in un algido momento di morte e di insensibilità, in corpo adulto genitalizzato e capace di amare.
Nella Storia di Viola abbiamo già detto del significato della scissione fra Viola di zucchero e Viola vera. Dal concatenarsi delle azioni in questa fiaba traspare in maniera evidente tutto il complesso ambivalente di fantasie e di timori che nascono nella neo pubere dopo l’incontro con l’uomo: si comincia con l’uscita di Viola dalla casa paterna per andare al lavoro presso una sarta, che le insegna un mestiere, ma che richiede obbedienza, allusione a conflitti con imago materne adolescenziali. Poi segue una specie di reciproco ‘sfottò’ fra Viola e il futuro partner, che allude apertamente a quell’insieme di gusti e retrogusti dolce-amari con i quali l’amore si presenta all’inizio. Dopo che il partner le ha rubato un bacio Viola torna presso il padre per consiglio, e solo dopo questo ripiegamento, Viola può riavvicinarsi al suo lui guidando attivamente l’attività seduttiva.
Nella storia di Persemneina (Prezzemolina) le due streghe (!) che mettono sotto chiave Persemneina e la obbligano a sfaccendare alludono alla solita madre ricattatoria e claustrale che boicotta la crescita. L’uccellino che magicamente aiuta la bambina a fare ogni cosa e che alla fine diventa un principe che la libera dalle streghe ha lo stesso identico significato di: Fagiolino, Gomitoletto, Codino, etc.- Ciò che qui manca è il timore nei confronti dell’incontro imminente con questo rappresentante del maschile.
Nella notissima fiaba di Fata Piumetta, come in Cenerentola, etc., il tema della presenza delle sorellastre rappresenta, più che il conflitto fraterno, la lotta intraspischica che la fanciulla deve intraprendere per vincere contro le proprie parti interne fatue e vanitose (le sorellastre di Fata Piumetta), o passive e parassitarie (quelle di Cenerentola), etc.-
Infine nella reggiana Storia del Diavolo l’incontro della ragazza con l’uomo viene reso così difficile, la crescita viene presentata in modo così tremendo che la ragazza deve essere moltiplicata per tre (le tre sorelle cattive), la madre deve odiarle fino al punto di augurasi di farle sposare al diavolo, questo a sua volta si deve mostrare così mortifero da strinare la rosa e buttare le sue spose nell’inferno. E lo sposalizio (l’unione col diavolo) viene mostrato in termini tanto negativi che la fiaba si chiude con il ritorno in casa, presso la madre.
Trasformazioni e conflitti nel caso del ragazzo
Nella fiaba del Serpente a Sette Teste vi è come un processo di rifrazione in base al quale la figura paterna si frange in tutta una serie di personaggi ognuno dei quali rappresenta imago paterne presenti nel bambino e nel ragazzo: si parte dal padre vero che deve sacrificare uno dei suoi tanti figli e lo fa con dispiacere, alla figura del contadino proprietario che prima accoglie il ragazzo e poi lo mette alla prova (classica imago paterna dell’adolescente maschio), al serpente che rappresenta le parti paterne ritenute - in un primo tempo almeno - dal bambino onnipotenti e ipervirili, ma anche quella disposizione paterna a concedere al figlio maschio il tempo per potere maturare e reggere ad uno scontro con i rappresentanti maschili della generazione precedente, al contadino che rifornisce il ragazzo di pane e latte che rappresenta le parti paterne soccorrevoli e rifornitrici di potenza, ed infine al re che riconosce il vero eroe e lo premia che rappresenta le imago paterne testimoni dell’avvenuta emancipazione ed autonomia.
In questo modo il tema del tempo occorrente per la crescita e della necessità che il genitore, se vuole che il proprio figlio cresca, gli dia tempo affinché possa acquisire la necessaria vigoria fisica, ma simbolicamente anche psicologica per affrontare il conflitto che il figlio ingaggerà proprio con lui (Edipo) occupa la parte centrale della scena, ma insieme ad esso sono presenti tutta una serie di conflitti di tipo intergenerazionale, così come il rapporto con un falso eroe che si appropria fraudolentemente dell’impresa: che rappresenta, come nel caso della ragazza, parti interne, in questo caso passive e parassitarie.
Abbiamo già detto della fiaba ‘Il forte Gianni’. Vediamo ora meglio cosa rappresentano i vari personaggi della fiaba e le azioni da loro compiute: il bastone nodoso che egli deve costruirsi, sul modello paterno, rappresenta la sua potenza che cresce mano a mano che passa il tempo; la triplice sfida al capo dei briganti le parti paterne che all’inizio paiono onnipotenti (ma che, nonostante ciò, non fanno paura al bambino) e poi comparabili alla propria potenza; i suoi tentativi di uscire dalla caverna in cui lui e la mamma sono prigionieri i suoi tentativi di uscire dall’interno dei legami endogamici e dalla gerarchia maschilista che in essi vige, in base alla quale fino a ieri egli era il più piccolo e, perciò il meno potente di tutti.
Del significato del ricongiungimento con il padre vero abbiamo già detto: rappresenta il rapporto con le parti buone paterne scisse che lui prende a modello (infatti e da questo padre vero che si fa costruire il bastone itifallico ancora più potente col quale riesce alla fine a conquistare la principessa). Si può aggiungere ora che il pretendente deluso che aveva rapito la principessa e i due infidi amici spaccatutto rappresentano il versante dei conflitti intragenerazionali e intrapsichici con le solite parti fraudolente, il primo, e onnipotenti e malvagie, i secondi.
Inutile dire quanto sia importante il confronto sia con i pari sia con le proprie parti interne impresentabili e malvagie.
Nel primo caso esso allude al tema della gelosia fraterna, che è fondamentale ad esempio in culture come quella pugliese in cui a livello educativo il tema della distribuzione dell’amore genitoriale verso i figli (spesso in base a problemi di proiezione in essi di istanze transferali: vedi questione del nome) genera un senso di smarrimento nei confronti di istanze di gelosia e ci competitività che il bambino non sa mai se risolvere sul piano concorrenziale o antagonistico.
Nel secondo caso la consuetudine con parti interne cattive ed il trattamento delle stesse è importante per decidere del loro destino dentro di noi: le dobbiamo mettere sotto chiave e buttare via il mazzo? Oppure possiamo osare convivere con loro? In questo caso la fine che nelle storie fa il falso eroe o l’antagonista è importante poiché dà al bambino una indicazione che va nell’uno o nell’altro senso e, quindi, definisce l’area di espansione e di tolleranza che può essere presente all’interno del soggetto.
Ma in alcune fiabe, come in quella locorotondese di Gomitoletto (Gnumerìdde) la presenza di fantasie di onnipotenza anale (Gomitoletto può rinforzarsi assumendo dentro di sé, per via anale vespe, lupi e tutta l’acqua del mare), permette al bambino e alla bambina (qui non ci sono ancora delle differenze di genere) di trattenere con sé tutta una serie di componenti pregenitali che, private dell’alone di onnipotenza, risultano utili alla crescita: pensiamo al significato di accumulazione (orale e anale) che assumono la conoscenza e quindi lo studio su questo piano.
La fiaba reggiana di Pirìn Fasòl è didascalica in proposito: abbiamo già detto che in questa fiaba non c’è un personaggio da impalmare, ma che il tema è quello della crescita e della trasformazione. Non abbiamo detto che questa fiaba (come molte fiabe reggiane) è piena di contenuti sterconarii presenti soprattutto nella figura della strega che appare letteralmente come cagolenta e pisciolenta, come colei alla quale per due volte Pirìn sfugge (con l’aiuto di contadini che lo liberano dal sacco) poiché sul più bello lei deve andare di corpo dietro una carradòra. Cosa rappresenta qui la strega? e cosa i contadini?
La strega a mio avviso rappresenta parti materne anali rimosse: il suo non riuscire a trattenere le feci è, in base ad una specie di legge del contrappasso, l’opposto rispetto alla sua consuetudine al massimo risparmio e al massimo controllo, rappresentato nell’immagine della resdòra che ha in petto la chiave della dispensa e che centellina ogni cosa; cioè di una madre che, nell’assumere le funzioni di guida domestica della casa, deve indurirsi e trattenere tutto: proprio al contrario di ciò che caricaturalmente avviene alla strega nella fiaba.
I contadini, così come tutti i donatori e i mandanti di tutte le fiabe, rappresentano invece parti interne coraggiose, buone, che incitano il bambino a crescere e sostengono la sua crescita psicologica: proprio al contrario di quel che avviene per le parti infingarde, cattive, passive, etc. che sono proiettate fuori sul falso eroe o sull’antagonista (come abbiamo già visto).
Sempre nella storia di Pirìn il padre con una volontà omicida mi fa venire in mente le immagini mitologiche di Saturno che, per non essere sopraffatto dai suoi figli, e cioè per evitare il conflitto intergenerazionale li mangiava (Goya) o di Laio, che per lo stesso motivo vuole uccidere Edipo. La madre col suo ‘Mettiamoli a lavorare piuttosto!’ e con l’assegnazione a ciascuno di un lavoro adeguato all’età e al senno di ciascuno, mi fanno venire in mente, invece, le parti genitoriali in grado di valorizzare e individualizzare (le funzioni che, come ci ricordava Paolo Mottana, poi a scuola sono esercitate dal docente attraverso la sua attività selettiva).
Pirìn, dicevamo, viene messo alla guardia del pero poiché il suo essere piccolo e credulone spinge i genitori a pensare che quell’attività sia l’unica che lui può fare. Abbiamo qui un esempio, fra mille che avremmo potuto fare, del fatto che, nella logica fiabesca, mentre le parti infingarde, cattive, passive, etc. sono proiettate fuori di sé e precisamente nel falso eroe o nell’antagonista, le parti sceme, piccine, indifese, invece non vengono mai proiettate fuori di sé, ma al contrario trattenute nella figura del protagonista. Perché? Perché altrimenti il bambino, che si ritiene sempre piccolo, scemo e indifeso non avrebbe motivo di identificarsi in lui, perché le fiabe partono sempre da una situazione di mancanza che riguarda sia il sé che le parti buone proiettate sui genitori (che non per niente sono sempre attribuite a genitori morti o assenti).
La strega che cattura Pirìn, lo mette nel sacco e lo vuol mangiare allude, dicevamo prima, alla possessività materna e Pierino che prende il coltello e uccide la strega il suo processo di emancipazione dalla madre.
In che cosa consiste la differenza fra la possessività materna nei confronti del figlio maschio e quella che tanto spazio ha nelle fiabe nei confronti della figlia femmina? Qui occorre prendere in considerazione il fatto che mentre per entrambi la madre è stato il primo oggetto in base al quale identificarsi, poi il figlio maschio si è allontanato dalla madre ed ha assunto un altro oggetto, il padre, sul quale identificarsi (cioè da prendere a modello) mentre la femmina è rimasta da questo punto di vista legata ad essa. Ciò rende molto più penoso il suo processo di emancipazione dalla madre poiché il suo rimanere fissata ad essa , in quanto modello identificatorio della prima infanzia, determina un legame fra figlia femmina e madre molto più forte e fisso nel tempo rispetto a quello che, sempre sul piano identificatorio, avviene fra madre e figlio maschio. Quest’ultimo infatti molto presto ha dovuto abbandonare il vecchio modello materno ed identificarsi col padre.
Il fatto quindi che in Pirìn Fasòl - che è la fiaba più gettonata della cultura reggiana - la madre sembri fissata oralmente al figlio maschio ci deve far pensare: a mio avviso in questo caso, più che di fronte ad una seduzione edipica (com’è nel caso della madre mediterranea), si deve pensare ad una nostalgia per uno stato di indifferenziazione (il sacco amniotico) in cui fra madre e bambino vi era una perfetta, anche se confusissima intesa.
Bibliografia
La strega a mio avviso rappresenta parti materne anali rimosse: il suo non riuscire a trattenere le feci è, in base ad una specie di legge del contrappasso, l’opposto rispetto alla sua consuetudine al massimo risparmio e al massimo controllo, rappresentato nell’immagine della resdòra che ha in petto la chiave della dispensa e che centellina ogni cosa; cioè di una madre che, nell’assumere le funzioni di guida domestica della casa, deve indurirsi e trattenere tutto: proprio al contrario di ciò che caricaturalmente avviene alla strega nella fiaba.
I contadini, così come tutti i donatori e i mandanti di tutte le fiabe, rappresentano invece parti interne coraggiose, buone, che incitano il bambino a crescere e sostengono la sua crescita psicologica: proprio al contrario di quel che avviene per le parti infingarde, cattive, passive, etc. che sono proiettate fuori sul falso eroe o sull’antagonista (come abbiamo già visto).
Sempre nella storia di Pirìn il padre con una volontà omicida mi fa venire in mente le immagini mitologiche di Saturno che, per non essere sopraffatto dai suoi figli, e cioè per evitare il conflitto intergenerazionale li mangiava (Goya) o di Laio, che per lo stesso motivo vuole uccidere Edipo. La madre col suo ‘Mettiamoli a lavorare piuttosto!’ e con l’assegnazione a ciascuno di un lavoro adeguato all’età e al senno di ciascuno, mi fanno venire in mente, invece, le parti genitoriali in grado di valorizzare e individualizzare (le funzioni che, come ci ricordava Paolo Mottana, poi a scuola sono esercitate dal docente attraverso la sua attività selettiva).
Pirìn, dicevamo, viene messo alla guardia del pero poiché il suo essere piccolo e credulone spinge i genitori a pensare che quell’attività sia l’unica che lui può fare. Abbiamo qui un esempio, fra mille che avremmo potuto fare, del fatto che, nella logica fiabesca, mentre le parti infingarde, cattive, passive, etc. sono proiettate fuori di sé e precisamente nel falso eroe o nell’antagonista, le parti sceme, piccine, indifese, invece non vengono mai proiettate fuori di sé, ma al contrario trattenute nella figura del protagonista. Perché? Perché altrimenti il bambino, che si ritiene sempre piccolo, scemo e indifeso non avrebbe motivo di identificarsi in lui, perché le fiabe partono sempre da una situazione di mancanza che riguarda sia il sé che le parti buone proiettate sui genitori (che non per niente sono sempre attribuite a genitori morti o assenti).
La strega che cattura Pirìn, lo mette nel sacco e lo vuol mangiare allude, dicevamo prima, alla possessività materna e Pierino che prende il coltello e uccide la strega il suo processo di emancipazione dalla madre.
In che cosa consiste la differenza fra la possessività materna nei confronti del figlio maschio e quella che tanto spazio ha nelle fiabe nei confronti della figlia femmina? Qui occorre prendere in considerazione il fatto che mentre per entrambi la madre è stato il primo oggetto in base al quale identificarsi, poi il figlio maschio si è allontanato dalla madre ed ha assunto un altro oggetto, il padre, sul quale identificarsi (cioè da prendere a modello) mentre la femmina è rimasta da questo punto di vista legata ad essa. Ciò rende molto più penoso il suo processo di emancipazione dalla madre poiché il suo rimanere fissata ad essa , in quanto modello identificatorio della prima infanzia, determina un legame fra figlia femmina e madre molto più forte e fisso nel tempo rispetto a quello che, sempre sul piano identificatorio, avviene fra madre e figlio maschio. Quest’ultimo infatti molto presto ha dovuto abbandonare il vecchio modello materno ed identificarsi col padre.
Il fatto quindi che in Pirìn Fasòl - che è la fiaba più gettonata della cultura reggiana - la madre sembri fissata oralmente al figlio maschio ci deve far pensare: a mio avviso in questo caso, più che di fronte ad una seduzione edipica (com’è nel caso della madre mediterranea), si deve pensare ad una nostalgia per uno stato di indifferenziazione (il sacco amniotico) in cui fra madre e bambino vi era una perfetta, anche se confusissima intesa.
Bibliografia
- Angelini L., 1989, Le fiabe e la varietà delle culture, Cleup, Padova
- Bertani D., Workshop ed ingresso in preadolescenza: difficoltà, problemi, in, 1999, “Bambini e ragazzi a rischio fra famiglia, scuola e strada” , Unicopli, Mi
- Cassinadri L. e Pantaleoni L. 1979. Fola fulèta. Coop., Correggio (RE)
- Collodi C., 1976, I racconti delle fate, Adelphi, Milano
- Devéreux G. 1978. Saggi di etnopsichiatria generale. Armando Roma
- Le Breton D., Il corpo come altro da sé da plasmare, in: Angelini, Bertani, Cantini (a cura di), 2001, “Gioco, scambio e alterità”, a cura dell’Amministrazione Prov. di Reggio Emilia
- Montobbio E, - Gradara M., 1987 "La casa senza specchi" Ed. Omega, TO
- Propp VJ., 1966, Morfologia della fiaba. Einaudi. Torino.
- Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, divenire donna, divenire madre, Mondadori, Milano, 1990
--> Qui sotto, in allegato,uno dei tanti videio che in periodo di pandemia caratterizzarono l'attività di "Tutto è fiaba"
[1] che rimane un’eroina cercatrice e non vittima
[2] attenzione! stiamo parlando di conflitti interiori, per cui non tanto della madre, o di parti interne ad essa, ma di come essa, in questo momento, può essere vista dalla figlia neo pubere.
[3] Sappiamo invece che nella versione reggiana la madre è rappresentata come entità svilente di ciò che può essere scambiato dalla figlia col lupo, e portata a chiudersi claustralmente con essa in casa, ma dimenticando però di chiudere l’ingresso di dietro (quella dell’inconscio), cioè non riuscendo a parare l’incontro della figlia ormai grande con l’uomo.
[4] La lettura moralistica di questo passo è inficiata dal fatto che l’unica cosa che accade a Cappuccetto, allorchè prende la sua strada, è quella di incontrare l’uomo.