Editoriale
il punto di vista di Psychiatry on line Italia
di Francesco Bollorino

IN RICORDO DI ROMOLO ROSSI Di Sabino Nanni

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1 marzo, 2024 - 18:19
di Francesco Bollorino

NDR: Oggi ci ha lasciato il mio Maestro Romolo Rossi. Ho sempre lavorato con lui fino al suo pensionamento.
E' una grande perdita per la Psichiatria Italiana e soprattutto per chi gli è vissuto accanto.
Chi ha una certa età ricorderà le sue conferenze e i suoi speech alla SOPSI epitome di una psichiatria che forse non c'è più ma che io rimpiango, profondamente turbato dalla notizia.
Ho chiesto a Sabino Nanni di ricordarlo sulla pagine di Psychiatry on line italia dove potrete trovare tanti sui scritti a partire dalle 24 lezioni di Psicoanalisi.

Oggi, primo marzo 2024, è venuto a mancare all’affetto di tutti noi che lo conoscevamo il Prof. Romolo Rossi. Chi mi legge può facilmente immaginare quel che provo per la scomparsa di un uomo cui devo gran parte di quel che so fare, e di quel che sono.  

        Il Prof. Rossi era un innamorato di Dante. Grazie alla sua invidiabile memoria, sapeva citare i versi della Divina Commedia, e lo faceva sempre a proposito: mai come sfoggio fine a sé stesso della sua cultura, ma come modo di comunicarmi nel modo più efficace, con le parole del Poeta, quel che stava avvenendo in seduta e quel che provavo in quel momento, e che aveva capito perfettamente. Penso, perciò, di far cosa gradita a chi ne condivideva gli interessi se, più che con le mie parole, esprimo i miei sentimenti con i versi con cui Dante manifestava la sua grande riconoscenza per il Maestro Brunetto Latini: 

 

“Se fosse tutto pieno il mio dimando”  

rispuosi lui “voi non sareste ancora  

dell’umana natura posto in bando;  

 

ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora,  

la cara e buona imagine paterna  

di voi quando nel mondo ad ora ad ora  

 

m’insegnavate come l’uom s’etterna:  

e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo  

convien che nella mia lingua si scerna. 

 

        Dante, come sfidando la Giustizia Divina e le leggi della natura, dichiara che, se il suo desiderio fosse esaudito, Brunetto vivrebbe ancora. Gli parla del proprio rimpianto del tempo in cui il Maestro, come un buon padre, gli mostrava continuamente (“ad ora ad ora”) come l’uomo possa acquistare fama immortale (“come l’uom s’etterna”). Il Prof. Rossi non pretendeva certo di aiutarmi ad acquisire “fama immortale”. Faceva, però, qualcosa di più utile per me, in questa limitata vita terrena: come un Poeta, sapeva coniugare le mie miserie, che man mano emergevano nell’analisi, con le realtà (queste sì “immortali”) della Bellezza e della Verità, cui aveva capito che ero sensibile. Così facendo, tali miserie, che tendevo a scacciare dalla mente, mi divenivano più facilmente pensabili, accettabili e suscettibili di autocontrollo. 

        Dante esprime a Brunetto la promessa – che nei suoi versi sta mantenendo – di manifestare nel modo più chiaro (“nella mia lingua si scerna”) la propria gratitudine attraverso la voce immortale della Poesia. Io, pur non essendo un vero Poeta, faccio al mio Maestro un’analoga promessa: cerco, e cercherò fin che vivo, di manifestare la mia riconoscenza verso di lui, rendendo chiari a tutti, nel lavoro e negli scritti, i frutti di quanto mi ha trasmesso: non solo i concetti che, grazie a lui, ho appreso, ma anche e soprattutto il suo modo di permettere ad essi d’evolversi, restando al passo coi tempi e coi nuovi problemi. E questo nella speranza che tali frutti vengano raccolti da chi rimarrà dopo di me. 

        Una delle più importanti conquiste che l’analisi del Prof. Rossi mi ha aiutato ad acquisire, è la capacità sana e matura (mai conquistata una volta per tutte e definitivamente) d’affrontare ed elaborare il lutto per la scomparsa di una persona cara ed importante. Questa è proprio l’occasione per mettere alla prova tale capacità. Nel corso dell’analisi, mi sono reso conto che ci sono modi sbagliati e sterili di vivere una perdita. 

        Un esempio di tali modi è simile a quello del melanconico: egli s’identifica con la persona perduta ed amata in modo ambivalente, la mantiene nel suo mondo interno, e trasforma la sua vita interiore in un continuo, irrisolvibile, tormentoso, reciproco “stalking” tra lui e chi oggettivamente non c’è più. In una più sana elaborazione del lutto, non viene trattenuta nel mondo interno (ricordata, rivissuta) l’intera persona scomparsa (persona che, come tutti noi esseri umani, possedeva anche difetti che ci avevano urtato o fatto soffrire), ma selettivamente quanto di più prezioso ci ha trasmesso ed ha arricchito la nostra vita interiore. Questo significa far rivivere il Maestro/genitore scomparso nell’atto in cui ci offriva con autentica generosità – come Brunetto a Dante – qualcosa che si è rivelato prezioso. Ogni maestro, nel momento in cui accende in noi la scintilla critica e ci trasmette le sue capacità intuitive, è come il sacerdote quando indossa i paramenti sacri: si spoglia di tutti i limiti e i difetti che lo caratterizzano come individuo, e diviene puro portatore di quanto di più elevato esiste nell’essere umano. È, questa, un’esperienza che mantengo serbata nel mio essere, più ancora che nella memoria. Soprattutto in questo modo può essere tenuto in vita l’anziano che non c’è più: nei cambiamenti e nella capacità di evolverci che, in quanto maestro, ha prodotto nel nostro essere; la memoria può mantenere la traccia di tutto il resto delle sue caratteristiche individuali; oppure può cancellarla, ma non è questo che conta. 

        Un altro modo d’elaborare il lutto che ho riconosciuto come inadeguato è quello di tipo ossessivo-compulsivo, caratterizzato da sottomissione ed obbedienza acritica all’autorità del maestro/genitore defunto; autorità che viene assimilata nell’istanza superegoica. Il falso presupposto su cui si basa quest’atteggiamento è che l’insegnamento tramandatoci sia “perfetto”. Ciò che è vitale non è mai statico, ma in continua trasformazione. Non può, quindi, essere mai “perfetto”: perfetto (dal latino “perfectus”, ossia “compiuto”) è ciò che non è più suscettibile di ulteriore trasformazione ed evoluzione. Di conseguenza, “perfetto”, in questo mondo, è solo ciò che è morto. Trasformare in qualcosa di statico (non suscettibile di evoluzione) l’eredità del Maestro/genitore scomparso, equivale ad “imbalsamarne” le spoglie; equivale a farlo morire una seconda volta. Ciò che abbiamo ereditato, per mantenere il suo carattere prezioso e vitale, non va accettato in modo passivo; l’insegnamento non deve divenire un dogma, una sorta di “verità” definita una volta per tutte, ma va continuamente confrontato con tutte le nuove esperienze: va chiarito, sviluppato, eventualmente corretto, esattamente come avrebbe fatto il Prof. Rossi se avesse continuato a vivere. Dante non è divenuto un allievo acritico, rimasto fermo a quanto il maestro Brunetto aveva pensato e scritto fino al momento della sua morte: al contrario è divenuto l’Autore di un’opera del tutto sua ed originale. È esattamente ciò che il Prof. Rossi vorrebbe da tutti noi, che siamo stati suoi allievi È proprio divenendo individui autonomi, unici e irripetibili che noi possiamo rimanere fedeli a chi ha contribuito alla nostra formazione; è il modo autentico in cui possiamo far sì che Maestri come il Prof. Rossi continuino a vivere accanto a noi e ad esercitare la loro benefica influenza. 

        Nel mio ultimo post su Facebook, ho riportato il link di un mio articolo sull’ultima opera di Romolo Rossi: “Sottovoce agli psichiatri”. Rappresenta il suo prezioso testamento, un “Tesoro”, come il titolo del libro di Brunetto Latini. Mi piace immaginare che il Prof. Rossi, prima di andarsene, avrebbe pronunciato le stesse parole con cui l’antico Maestro si congeda da Dante: 

 

“Gente vien con la quale essere non deggio: 

sieti raccomandato il mio Tesoro 

nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”  

 

La “gente” che l’ombra di Brunetto non deve (“non deggio”) incontrare, se intendiamo la frase alla lettera, è la schiera dei dannati che egli è obbligato ad evitare. Tuttavia, i versi che seguono (e l’intensa risonanza emotiva che suscitano queste parole, simili a quelle di un epitaffio) suggeriscono che si tratti anche dei sopravvissuti, appartenenti alle generazioni successive alla sua: egli non può più, ovviamente, incontrarli come persona fisica; ma non potrebbe neppure confrontarsi con loro idealmente, come fosse una persona autonoma, qualora rimanesse di lui un puro ricordo fermo nel tempo, o se egli sopravvivesse nella forma di parole scritte, non sottoposte a critica; parole che non potrebbero più affrontare i nuovi problemi e la diversa mentalità di chi sopravvive. Anche noi, come Dante, per far continuare ad esistere il nostro Maestro, possiamo farlo solo rendendo “vivente” (ossia imperfetto ma in via di perfezionamento), e capace di dialogare anche coi contemporanei, quanto nella nostra mente è rimasto di lui, attraverso il “Tesoro” che abbiamo ricevuto in eredità. Sono certo che Romolo, come Brunetto, non ci chiederebbe di più (“più non cheggio”) 

 

  

       

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