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TSO: ontologia del politicamente corretto in Psichiatria

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29 aprile, 2017 - 20:44
di Redazione POL.it
di EMILIO VERCILLO

Quando in futuro si scriverà una storia del pensiero in Italia probabilmente esisterà un capitolo sul Nominalismo politico italiano, scuola che uscendo dagli ambiti angusti  della riflessione sugli universali, ebbe invece estremi risvolti pratici nella vita della popolazione. Sicuramente verrà annoverato nelle forme estreme, ben aldilà delle idee di quel Roscelin che si vuole abbia definito le parole designanti i predicati delle ‘pure emissioni di fiato’. Il nominalismo pratico italiano del secolo XX-XXI ebbe pretese maggiori, cioè che dato un predicato nella parola, ad esso corrisponda di necessità una realtà. Che anzi la realtà, nel caso non corrisponda al predicato, sia un effetto di ingiustizia, con uno o più responsabili facilmente designabili, e negli esponenti ancor più radicali sia perciò stesso –per non conformarsi al concetto- inesistente.
Il mezzo pratico per attuare questo nominalismo forzoso si vide nella Legge, nella propaganda, e nella mitologia sulla Legge, o sul suo Profeta (fatto parlare anche contro se stesso a volte, come accade spesso in casi consimili). Rimane il fatto che nella storia se un tipo pensa e dice una cosa, quello per cui lo si ricorda è la conseguenza del suo pensare e la recezione del suo dire. Per cui poco conta riesumare filologie e cabale interpretative sul ‘vero pensiero’ o ‘vera intenzione’: la conseguenza è nella Parola, nel Verbo come si è interpretato, propagato, propagandato, nel come è stato assorbito colando in tutti gli strati della popolazione, e sia divenuto non solo Legge, ma anche Idea incontrovertibile.
Si obiettò che più che Nominalismo fu piuttosto un idealismo radicale, fondato su assiomi morali: ‘se è ingiusto che la realtà naturale sia come è, allora è doveroso affermare che non sia così, perché non può essere così, e di fatto così non è’; fu così che quanto era stato sotto gli occhi di tutti per secoli semplicemente svanì, sottomesso a un’idea, autodefinitasi libertaria, che permettesse a ciascuno (e  obbligasse ognuno nella comunità: non esiste dogma senza chiesa) di ricreare la realtà in maniera consona agli assiomi.
Nominalismo estemo o idealismo libertario che sia stato, si convertì in breve in un ente morale dichiarativo a cui ci si riferì come il politicamente corretto. A questo ambito appare riferirsi il dr. Francesco Bollorino nella sua nota. Non che si definissero così i suoi sostenitori, ma in breve, grazie alla propaganda percolata nell’intimo della coscienza nazionale, divenne un imperativo morale disattendere il quale avrebbe comportato l’esclusione dai salotti buoni (dai salotti dei buoni), e sicuramente dai pulpiti e dalle cattedre –in cui si convertirono i ruoli professionali di dirigenza.
L’ambito di applicazione della nuova forma trascendentale di percezione della realtà fu ampio, e certo non esteso solo all’Italia. Alcuni aspetti della realtà -i più sgradevoli peraltro- come la morte, non fu possibile negarli almeno sul piano della loro esistenza, ma se ne allontanò l’impatto il più possibile, o almeno se ne cercò una trasformazione giudiziaria : se la cosa scandalosamente continuava ad avvenire, doveva essere per dei colpevoli, probabilmente organizzati in un complotto, magari di categoria.
Lo stesso destino avvenne per la malattia o in genere per la sofferenza o l’infelicità : i colpevoli per la prima potevano essere l’olio di palma o il chirurgo, l’ambulanza o le scie degli aerei, ma in ogni caso se ne conosco l’autore, posso tranquillamente continuare ad affermarne la sua inesistenza morale di base. Non si dà pestilenza senza un untore. Per l’infelicità invece, passati di moda i criteri politici che la vedevano legata a questo o quel sistema politico in attesa della radicale trasformazione politico-economica, fu escogitata una soluzione che pescava negli ambiti della lingua scientifica, e risolveva anche problemi economici vari, da case farmaceutiche a sette che promettevano felicità ripetendo in gruppo  in continuazione alcune sillabe definite; fu così che si decise più o meno in tutto il mondo che tristezza e infelicità dovessero da allora in poi chiamarsi depressione. Un termine che indicava una malattia mentale fu fatto slittare ad altri ambiti : ‘finalmente scoprii che non ero infelice, ma avevo la depressione, la malattia più diffusa sulla terra’. In questo caso si pose in atto una tecnica ben nota allo spionaggio, il mascheramento: per celare una informazione la si affoga all’interno di infinite altre, sicchè l’ago si perda nel pagliaio.
Le specialità tipicamente italiane della scuola di pensiero furono però quelle che attinevano a un ambito ben definito della realtà inestetica: la malattia mentale, anzi per alcuni storici del pensiero –anche se non per tutti- proprio da quel settore iniziò l’opera di conquista sulla realtà. Da un tempo ormai lontano una serie di constatazioni banali sulla realtà furono espunte dal politicamente corretto. Le nominerò in maniera non ordinata, anche perchè le sovrapposizioni delle cancellazioni furono soggette a una tettonica a placche di emersione e sommersione, trasformazione in rocce ignee, e eruttazioni vulcaniche. Questa particolare dinamica ha permesso agli stessi rappresentanti del nominalismo politico-psichiatrico italiano di affermare e negare la realtà negata (o il suo concetto) in tempi o ambiti diversi, rendendo insieme chiaro l’imperativo di fondo, ma scivoloso il suo aspetto esteriore.
Innanzitutto le varie forme della constatazione di esistenza della bruttura: <esiste una cosa che è la malattia mentale>.  
« Il Profeta non ha mai detto che non esista! » o « Sì, non esiste, ma esiste il fatto che qualcuno soffra » furono asserzioni ripetute a mitigare la versione radicale. Passò poi una forma linguistica di negazione : non nominare mai termini come malattia mentale o soprattutto malato, sostituendolo con perifrasi o aggettivazioni con tutt’altro significato originario. Disagio e disagiato rimasero nella memoria di quel tempo, a indicare la scomodità della cosa e quanto scomodo potesse essere uno ad avercela ; una interpretazione alternativa, secondo alcuni esperti del difficile campo della lessicografia politically correct italiana, vuole che indichi l’imbarazzo di trovarsi ad avercela di fronte ad altri, come può stare a disagio un bancario che si presenti in cravatta a una festa cosplay : così probabilmente si sentiva chi dovesse nominarla, sapendo che in fondo non esisteva.
Negli ultimi tempi si diffuse anche il termine vulnerabile, grazie ad alcune circolari del MInistero dell’Interno che si fece garante del problema dei richiedenti asilo. Gli specialisti dei Servizi (opportunamente chiamati di Salute Mentale, perchè non ci fosse dubbio che solo di Salute potessero occuparsi, non esistendo il complementare) ricevettero varie segnalazioni per persone vulnerabili, cosa che sconcertò non pochi medici, non adusi a pensare che vulnerato, ferito –così erroneamente pensavano le persone colpite e fratturate dagli eventi- in effetti potesse far rispuntare il concetto di malato. ‘No, al massimo è vulnerabile, ma ancora non vulnerato, ferito ; e se lo diventa, sarà chiara la responsabilità del professionista, probabilmente per averlo pensato già tale alla prima visita’. Denominata piuttosto accoglienza (o altri termini simili). Insomma, di fronte al difficile compito dei nostri riformatori della realtà, al dover designare qualcosa che non c’è, si fece ricorso a tutte le abilità linguistiche per negare mentre si indicava.
Come si accennava sopra, la dinamica di porre veli a una realtà che vigliaccamente non ci stava ad essere coperta, generò una serie di atteggiamenti e tattiche linguistico-concettuali e pratiche, che agissero cme soluzione B o C per lo scopo previsto. In subordine si rese necessario per esempio un altro escamotage, evitare di usare per quanto possibile termini che assomigliassero a diagnosi mediche, di per sè tendenti a dividere e distinguere i problemi, o addirittura a proporre soluzioni tecnicamente separate per ognuno di loro invece della panacea, evidentemente unica terapia accettabile per qualcosa che non esiste. Niente distinguo, niente diagnosi di schizofrenia (ritardo mentale poi…) : diagnosticarla, nominarla, sarebbe stato come condannare alla cronicità (che non esisteva se non come istituzionalismo, un demonio già risolto dalla Legge che ci invidiano ancora in tutto il mondo) una serie di persone con problemi, e negare loro il miracolo ad esempio della riabilitazione, glorioso campo italiano. Psicosi timidamente si usava di più, nonostante in aree indenni dalla riforma nominalistica delle coscienze fosse ormai screditata di senso. Inutilmente piccoli uomini tentarono di indicare che in medicina da tempo si erano abbandonate categorie diagnostiche come febbri, tossi, e si preferiva da qualche secolo distinguere sintomi sindromi e processi patologici (malattie): si immagini la loro inefficace difesa di fronte ai tribunali dell’ortodossia. Conseguentemente anche eventuali distinzioni operative in settori e servizi specialistici per patologia (che è la norma in campo medico) furono viste come eresie (“gli adoratori della realtà!”), e mandate al rogo sin dal loro nascere.
Accenneremo brevemente alle conseguenze nel campo delle terapie possibili per l’inesistente, rimarcando il fatto che soprattutto laddove settori professionali furono demandati a questo vergognoso compito, furono trattati allo stesso modo di un cugina che in una famiglia borghese mantenga tutti con il suo lavoro di prostituta, che si tende a non invitare nei consessi pubblici. A chi faceva il lavoro sporco veniva concesso uno status inferiore in qualche modo, si ricorreva a loro come si ricorre a un killer dei servizi segreti, la cui opera non va rivelata al pubblico. A parte che qualche incidente accadesse, e allora il rogo era inevitabile, usando anche il braccio secolare della magistratura. Ma non solo gli uomini del lavoro sporco, anche i loro mezzi si vedevano come cose vergognose, come vizi privati di cui parlare solo in ambiti ristretti e controllati. Questa cosa orribile, gli psicofarmaci, pretendevano curare allucinazioni, deliri, sintomi insomma, cose che non esistono. Si sfumò la cosa con l’aiuto dell’industria farmaceutica, che fu ben contenta di trovare altre sostanze meno stigmatizzate (anche se spesso non altrettanto efficaci), da poter far digerire alle persone in scomodità, disagiate. Ma non c’è dubbio che furono altre le cose sotto i riflettori pubblici: il calcio, la ceramica, l’arte, le attività sociali, i ristoranti, le vacanze al mare, le attività comunitarie: questo sì che è terapia per qualcosa che non c’è, o non è una malattia, o non è quella malattia, o non va nominato. Si alzino i cuori e la commozione al vedere fare (a volte forzati) cose definite normali a persone a cui solo dei malvagi -probabilmente per interesse personale, o culturalmente degenerati- volevano negare lo statuto di normale sanità.
Un ostacolo grande si frapponeva continuamente alla grande Riforma delle coscienze: le persone in scomodità continuavano a non volerne sapere di essere tali, e finivano continuamente per essere scomode. Niente da fare, non capivano, a dispetto di tutte le “adeguate misure extraospedaliere” di assistenza. Non avevano quella ‘coscienza di malattia’ che si pretendeva essere il risultato di un corretto approccio tecnico alla salute mentale, anzi l’unico ammesso. Non c’è dubbio, non aver abolito la categoria degli psichiatri (o averla sostituito con altre più politicamente corrette) aveva favorito il perpetuarsi dell’incapacità a persuadere il soggetto alle cure (se pure era permesso chiamarle così). Niente da fare, non si sforzavano per nulla ad acquisire quella coscienza critica del loro stato, che nell’epoca pagana precedente era stato visto come una delle caratteristiche principali dell’anomalia della loro mente: il malato di mente spesso (dipendendo dalla condizione patologica di fondo, in fasi acute o cronicamente) non sa di essere malato: così dicevano i pagani prima del Verbo. E qualcosa si era dovuto trovare per contrastare questa testardaggine della realtà ad uniformarsi al Verbo: il TSO, sigla magica. Oh, ma reso difficile, eh? farraginoso come procedura giuridica, in certi luoghi impossibile da realizzarsi nei termini della legge nei temi dovuti, praticamente oscuro nei termini di attuazione. In luoghi come Roma, un vero inferno.
Intendiamoci: è vero, stava scritto che si limitava la libertà dell’individuo, si forzava la persona, nel caso di occorrenza di una condizione generica (“alterazioni psichiche tali da richiedere interventi terapeutici urgenti”: buona anche per un tumore cerebrale, una crisi ipoglicemica, o una persona piena di cocaina), ma si occultò per quanto possibile che la cosa potesse limitare anche il suo corpo, che ci potesse essere necessità di trasportare il corpo della persona in oggetto sforzandolo e ‘contenendolo’ (legandolo). Ancor meno si poteva parlare decentemente in pubblico del fatto che nei repartini scarsi di numero e piccoli di dimensioni (per Legge!) fosse necessario spesso seguire legando le persone; almeno finchè gli antipsicotici potessero cominciare il loro lavoro antipsicotico, che a differenza della sedazione richiedeva almeno una settimana. Peccato. Proprio il termine previsto dalla Legge! (per quanto rinnovabile con la solita trafila burocratica). Ora, che la Contenzione Fisica venisse da un punto di vista medico-legale considerato un atto medico dovuto in certe circostanze (per esempio quando si va in sala operatoria senza coscienza si viene contenuti, ad impedire incidenti; si viene contenuti obbligatoriamente per legge anche guidando un automobile), era considerata ovviamente una delle brutture della suddetta realtà inesistente, e quando la realtà traboccava nella cronaca pubblica, altre fascine si accendevano. Inutile dai soliti omini si levava il concetto che era cosa conveniente per il paziente (!!!) disporre di fasce apposite, piuttosto che tenere in anestesia una persona per giorni: quello che si pretese, esplicitamente o meno era di adeguarsi allo Spirito della Legge: se non erano stati capaci di ottenere con i loro studi ed esperienze che il paziente desse il Consenso (uno dei sacramenti moderni), magari con la parola, magari con l’imposizione a distanza delle mani; insomma, se non erano in grado di fare questo, di che professionalità si parla?
Non si volevano altre prove della psichiatria come Storia del sopruso sull’Uomo. Non dopo la Legge.
Qualche omino emigrò. Altri paesi non erano soggetti alla negazione della esistenza della realtà come in Italia, e anche se non esistevano Manicomi (il Mostro della religione del Profeta), le cose erano ben diverse. In alcuni, per esempio in Iberia, i Manicomi non c’erano da tempo, i reparti per acuti avevano 1 posto letto ogni 10.000 abitanti, anzi potevano avere un numero di pazienti adeguato al personale richiesto (ad es. un reparto di 22 posti letto disponeva di 3-4 infermieri e 3-4 ausiliari per turno), le operazioni di coercizione del paziente viene svolto da personale di sicurezza chiamato al bisogno, non da sanitari che stavano lì per ben altro, e in più esistevano luoghi di media o lunga durata per il ricovero obbligatorio, se necessario, disposti dal giudice. Peraltro nella nostra esperienza venivano due volte a settimana in reparto, il procuratore e il giudice, a controllare il paziente e la richiesta di cure obbligatorie, e l’espressione naturalmente più consueta rivolta al paziente che elevava legittimamente le sue proteste era: “Sono i dottori che sanno quando è il caso di essere dimesso, non il giudice”.
In alcuni altri paesi la obbligatorietà della cura dipendeva solo dalla legge penale, in caso di reati che la magistratura riteneva andassero insieme alla necessità di curarsi, o in relazione alla pericolosità accertata. In questi paesi era ovvio che lo stato si disinteressava dello stato di salute o malattia dei cittadini, a meno che non delinquessero: se non attaccavi qualcuno col coltello per strada, non avevi diritto a stare meglio. Erano ovviamente paesi in cui il liberismo entrava a pieno titolo nelle coscienze del legislatore, in cui si rifiutava una volta per tutte l’idea paternalistica di uno stato che si preoccupi della salute dei suoi cittadini, e solo entrava a sanzionarne il disturbo. Non a caso in questi paesi anche vicini il pareggio di bilancio è un dogma religioso.
A questa stessa logica liberista si ispira la richiesta di abolizione del TSO: non entri la comunità nella libertà del singolo, di curarsi o non curarsi, che abbia capacità di risorse per decidere o che abbia la mente alterata per una malattia. Non sono affari dello stato, non si ha il dovere di solidarietà pubblica per chi ha diritto a cure anche se non è in grado di chiederle. Che sia lasciato libero, ancor più libero di come già è ora di andare marcendo nella sua malattia, e di far marcire famiglia e comunità intorno. Il principio di Libertà è sicuramente prevalente, tanto più quando quello che gli si vuole contrapporre è una realtà inesistente.
Nello Spirito della Legge, e secondo il suo Profeta

 

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Che dire, caro Emilio? Non ti metteranno le fascine sotto i piedi, no. A meno di non cambiare discorso. Perché la parte più importante di ciò che dici (almeno per come suona alle mie orecchie), non riguarda il TSO né l'ideologia psichiatrica di turno (secolare), ma l'anima profondamente clericale della nostra civiltà, il nostro richiuderci in assolute certezze inscalfibili e pigre (a proposito: da quanti anni dura la religio? da quanti anni il paradigma è diventato sacro?) che ci trasciniamo nel tempo attraverso stanche giaculatorie ed esecrazioni dei cattivi. Quanto al merito strettamente professionale e scientifico della questione, non sono certamente io la persona più adatta a risponderti perché come sai, noi due facciamo due lavori alquanto diversi ed esploriamo, probabilmente, territori differenti. Io, formato in un clima di psichiatria dinamica che presto lasciò il campo libero a ogni genere di "nuovo" che avanzasse, senza lasciare di sé alcuna traccia, persi rapidamente l'orientamento, fin dai primi anni successivi al conseguimento della specialità (erano i primi anni ottanta, epoca coeva alla nascita del DSM III). Fu per questo (e per altre ragioni di "congenialità") che decisi quasi subito di abbandonare la psichiatria, in quanto branca della medicina che si occupava dell'"irrimediabilmente compromesso", del cronicizzato, dell'immodificabile, per dirigermi là dove il conflitto poteva essere nato o star nascendo (parlo del conflitto: non della malattia il cui senso generale mi sfuggiva, forse per ragioni di immatura idiosincrasia alla morte). Da quella scelta, il cui risultato fu di fare di me una sorta di "psicologo clinico", a dispetto del titolo accademico di psichiatra in mio possesso, scaturirono esperienze irripetibili e uniche, che fecero di me ciò che sono oggi, e di cui sono tutt'ora felicemente appagato.
Per questa ragione non posso entrare con te in discussione su cose che tu, diversamente da me, conosci per averle frequentate su più terreni, anche geograficamente distinti.
Una cosa, però, mi sento di dirti. Quando parli di "panacea", di spiegazione unica che va bene per tutto, trascuri di dire che fu proprio la malattia, l'organicità, la presunzione unipersonale e obbiettivante che non risparmiò nemmeno Freud, a essere la prima spiegazione omnicomprensiva. E che soltanto a fatica, e contro le proprie stesse repressioni interne (la psicoanalisi non fu affatto al riparo da questi errori) fu possibile iniziare a guardare la realtà da un punto di vista "alieno". Non fu certo merito di Basaglia e dei suoi stanchi epigoni se ciò accadde ma proprio grazie alla libertà di pensiero di chi non dava nulla di scontato ciò fu reso possibile.
Se devo dire qualcosa riguardo alla mia lontana esperienza in un "ex" Ospedale Psichiatrico (in via di "liberazione": anni 80-86), posso dirti che molto spesso mi chiesi da quali catastrofi relazionali provenissero i miei pazienti cui l'assoluta uniformità delle cure, delle diagnosi, delle terapie, unitamente alla ferma convinzione che tutto provenisse da qualche misteriosa tossina cerebrale, avevano cancellato ogni peculiarità esistenziale, ogni memoria tramandata, ogni possibilità di essere riconosciuti (da noi stessi, che pure un po' ci provavamo), come individui.
Con ciò, non si può certo liquidare ciò che tu giustamente ricordi (il ruolo del metabolismo glucidico nelle malattie psichiatriche "maggiori", la loro differente architettura neurale, anche se quest'ultima, potrebbe modificarsi persino per me che in questo istante sto "scoprendo" ciò che ti scrivo). Non possiamo liquidare nulla di ciò che risulta all'evidenza e scuote le nostre convinzioni più radicate. Ma se ciò è avvenuto non dipende soltanto dal tasso di religiosità e di clericalismo di cui le ideologie libertarie sono intossicate, ma anche dagli opportunismi politici, economici, e accademici che da troppi decenni ostacolano un'educazione universitaria, e forse anche una ricerca scientifica che sia veramente libera.
Con la stima di sempre.

Le fascine come sai mi sono state messe da abbastanza tempo, caro Gianni. Come sai anche, per conoscerci da tempo, che da tempo percorro entrambi i campi, quello dello psichiatria e quello della psicologia clinica, per dirla con i tuoi termini "dell'irrimediabilmente compromesso" a un estremo, e dall'altro quello della psicoterapia che muove le risorse della relazione. Per questo non riesco a vedere le 'panacee' proposte da un lato o dall'altro come pensiero unico, e predico la scienza, fatta di realtà distinte e di teorie regionali e in sviluppo.
Niente di particolare: è quello che si fa in fisica astronomica, o anche nell'empirico campo della medicina, da cui la nostra disciplina corre sempre il rischio di smarcarsi, sia nella logica dei DSM (la cosa più lontana dalla logica medica che esista) che in quella vetero-psicoanalitica che tutto legge in una teoria unica.
Grazie agli dei in questo tempo ha meno senso contrapporre biologico e psicologico: almeno non ne ha nel mondo professionale internazionale, in cui psicologi sono massimi esperti di neuroimaging, e medici si occupano di terapia per i disturbi dissociativi, per dirne alcune. Solo in Italia si vuole mantenere questa separazione, per ignoranza senza dubbio, ma anche per difendere in un universo affollato il diritto a possedere un territorio: un meccanismo come vedi anche questo biologico. Bios non è la molecola e il recettore, bios è la condotta che sta dietro il gruppo quando le risorse sono scarse e gli individui molti, ad esempio. Bios sono le leggi che regolano l'incontro tra gli individui dal formarsi dell'attaccamento, alla competizione tra branchi per una cattedra.
Ma non parlo di questo nella nota. Parlo di come si pagheranno prezzi ancora più alti per una religione (ideologia, nel senso di falsa coscienza) nata negli anni '70, quelli che tu citi che hanno portato a fare sciocchezze insieme a spingere a una mobilità di ricerca di teorie per ognuno di noi che era alla ricerca di verità. La scienza (lo so, sono un vetero illuminista) non ha bisogno di ricerca di Verità, o non la mette innanzi urlandola nel megafono, e soprattutto si costituisce come tale quando mette da parte la Morale, il dover pensare una cosa e non un'altra perchè 'è giusta'.
Prezzi più alti, dicevo: la chiusura dei manicomi criminali nel vuoto ne è una prova, e già se ne contano le vittime. Non è curiosa questa cosa che il malato di mente possa essere pericoloso per la legge, ma non lo sia per il legislatore e il sacerdote della Libertà della Legge?
Non è curioso che nel mondo si sappia che la media del tempo necessario per un episodio acuto schizofrenico o maniacale è di 3 mesi, finchè sia stabilizzato sufficientemente, e da noi non si consideri neanche di basarsi su dati scientifici per decidere quanti posti letto servano. In qualunque branca della medicina se la necessità per la tubercolosi aperta comporta un X-tempo e X-strutture, almeno si considera il fabbisogno per i pazienti, anche se poi l'economia a cui è stata data in mano la sanità non farà nulla: in teoria si considera legittimo agire così. Nel campo delle malattie mentali invece no: se esiste il peccato originale del Manicomio, è su evitare ogni rischio di questo mitico paganesimo che gli sforzi si concentrano.
Ti racconto un episodio che mi ha fatto pensare al nominalismo. Molto di recente ci siamo trovati come servizio a dover costruire le linee di indirizzo ministeriale per la salute dei rifugiati (uso parole non ufficiali, come sempre). Ebbene, uno degli scogli è stato dato dal fatto che da parte di alcuni rappresentanti di regioni "all'avanguardia" non si poteva ammettere la parola 'lavoro d'equipe', perchè 'equipe' era denominazione dei gruppi di lavoro nell'era del Manicomio...
Vedi dove arriva l'idiozia di pensare che le parole siano le cose?


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